venerdì 25 giugno 2010

COMPETITIVITA’: FIGLI E FIGLIASTRI


"BASTA CON QUESTA GUERRA DI MORTI DI FAME CONTRO MORTI DI FAME"

Un "nuovo" allarme per l’economia europea è stato lanciato qualche settimana fa dalla neopresidente di FIEC (Federazione delle imprese Europee di costruzioni) Luisa Todini: le imprese cinesi.

Dopo che lo scorso settembre, un consorzio guidato da Covec, (un’azienda statale cinese) si è aggiudicato la gara indetta dal governo polacco e finanziata con fondi Ue e Bei (1) per realizzare un tratto di 90 chilometri della Varsavia-Lodz, aziende cinesi sarebbero “vicine a ottenere la commessa per il raccordo anulare di Bucarest, mentre lavori sono in corso in Albania e Turchia.”

Secondo la Todini, “l'offerta cinese era manifestamente anomala o incompatibile con le regole Ue” - “aveva un ribasso di 10 punti superiore alla seconda miglior offerta”, presentava un ribasso globale del 30% circa (2) ed inoltre “è stato già appurato in diversi casi che le imprese cinesi, specie quelle di proprietà statale, impiegano condannati per reati comuni quale forza lavoro a costo zero”.
La “Fiec insieme a Eic (la federazione dei costruttori europei operanti al di fuori della Ue) e Business Europe (la Confindustria europea) hanno denunciato alla Commissione Europea l' episodio e il fatto che le imprese di costruzioni europee non godono di uguali possibilità di accesso al mercato cinese.” (3)

L’economia cinese, presenta uno dei più bassi costi del lavoro; nel 2009 gli stipendi medi mensili erano di 393 dollari che, con il cambio euro/dollaro a oltre 1,5 (cambio 22 ottobre 2009 ) vuol dire 262 euro; anche se gli stipendi vietnamiti si fermano a 84,3 dollari (56,2 euro), la produttività cinese è la più competitiva del continente asiatico (4).
Oltre al già bassissimo costo del lavoro cinese, bisogna ricordare i circa 8 milioni di cinesi che lavorano e sopravvivono nei 1.422 laogai, le “aziende - lager” dove un giorno sono stati rinchiusi arbitrariamente e da dove allora lavorano senza paga, tra inaudite torture, violenze gratuite e privazioni di ogni tipo”(5).

La pericolosità sociale di tale “competitività” per i lavoratori europei è evidente e l’ipotesi di accordo di libero scambio tra Unione Europea e Corea del Sud che ha recentemente superato un primo passaggio in commissione al Parlamento UE, non promette nulla di buono.
L’accordo, che secondo l’ACEA (6) “privilegia chimica ed elettronica ai danni del motoristico e del tessile”, sarebbe una vera“follia”,e consentirebbe ai marchi sudcoreani di abbassare ulteriormente i loro prezzi, circa il 15%, diventando ancora più competitivi. L’Europa rappresenta il 25% delle esportazioni dal paese orientale; “loro vendono 540 mila pezzi in un mercato da 500 milioni di consumatori mentre noi ne piazziamo 32 mila in uno da 50 milioni”; poiché non può non piovere sul bagnato, nell’accordo è inserita la “clausola di Duty Drawback (recupero del dazio). La norma consente di scalare i dazi pagati sui prezzi importati, ad esempio dalla Cina, e impiantati su un veicolo destinato all’Europa sino ad un massimo del 45% dei componenti dello stesso. Se comprate un’autoradio cinese pagate un dazio del 40%; se la comprano i coreani e la mettono sulla vostra macchina, non pagano un cent. Uno studio Credit Suisse calcola che ciò garantisce 500 euro di minori costi per un’utilitaria. Il che porta il vantaggio di Seoul a 1.500 per ogni immatricolazione.”(7)


Anche la Cina però, delocalizza: nel giugno 2009 è stato firmato in Francia il protocollo d’intesa per “Chateauroux business” che prevede nella città francese di Chateauroux, la creazione di 4mila posti di lavoro di cui l’80% (il grosso di operai e tecnici), dovrà essere riservato alla manodopera locale mentre saranno almeno 800 i dirigenti cinesi; si creeranno basi logistiche, centri di ricerca e sviluppo ed unità produttive, probabilmente di assemblaggio di componenti fatti in Cina; i prodotti finiti però, potranno portare l’etichetta “made in Europe”; si tratterà essenzialmente di aziende high tech attive nella telefenoia, nell’informatica e nell’elettronica.(8)

Se la competizione salariale tra Europa e Cina è oggettivamente impossibile, quella tra gli stessi membri dell’Unione Europea non è molto più facile; prendiamo il caso degli operai polacchi dello stabilimento FIAT di Tychy: un operaio carrellista con 25 anni di anzianità ed un contratto da 48 ore settimanali “guadagna 2 mila zloty netti al mese (circa 400 euro), in un Paese in cui un professore universitario a fine carriera intasca 2.500 zloty e in una regione in cui l' affitto di un bilocale periferico costa mille zloty (200 euro)”(9).

Ora, tralasciamo il fattore produttività il cui aumento, nel momento in cui le vendite di automobili crollano, non credo sia il principale obiettivo (salvo che qualcuno si sia dimenticato di dire che abbia intenzione di chiudere altri stabilimenti con conseguenti ulteriori massicci esuberi), ipotizziamo per un attimo che “coraggiose” istituzioni ed organizzazioni sindacali accettassero l’adeguamento delle retribuzioni italiane a quelle polacche, è evidente che sarebbe arduo arrivare alla prima settimana del mese, altro che 4a ma, evidentemente, un limite “al ribasso” è concepibile solo per le commesse pubbliche e per le imprese, non per i lavoratori e l’articolo 36 (e non solo) della Costituzione, può essere omertosamente sacrificato sull’altare non del liberismo, ma di una pericolosa forma di anarchia dove a prevalere non è la democrazia ma il più forte, il più spregiudicato e, non c'è flessibilità, non c'è precariato, non c'è alleggerimento degli obblighi sulla sicurezza dei lavoratori che possano impedire un disastro sociale e democratico.

(1) "La BEI appartiene agli Stati membri dell'Unione europea. Questi ne sottoscrivono congiuntamente il capitale secondo una ripartizione che riflette il peso economico di ciascuno nell’UE. La BEI non utilizza fondi del bilancio dell’UE. Si finanzia invece da sola mediante l’emissione di prestiti sui mercati finanziari.
Poiché i suoi azionisti sono gli Stati membri dell'UE, la BEI beneficia sul mercato dei capitali del migliore rating di credito (tripla A), che le consente di mobilitare, a condizioni estremamente competitive, importanti volumi finanziari. Non avendo scopo di lucro, è in grado di offrire condizioni di credito altrettanto favorevoli. Non può tuttavia coprire più del 50% del costo totale di un singolo progetto."
(2) Il Sole 24 Ore 29 maggio 2010
(3) Corriere Economia 7 giugno 2010
(4) Il Sole 24 Ore 15 giugno 2010
(5) Il Giornale 19 giugno 2010
(6) Associazione Europea dei Costruttori d’Auto (European Automobile Manifacturers’ Association)
(7) La Stampa 24 giugno 2010 (8) Il Sole 24 Ore 8 giugno 2010
(9) Corriere della Sera 18 giugno 2010





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sabato 19 giugno 2010

"COMUNICHI AL SENATORE AGNELLI...



"Comunichi al Senatore Agnelli che nei nuovi stabilimenti Fiat devono esserci comodi e decorosi refettori per gli operai. Gli dica che il lavoratore che mangia in fretta e furia vicino alla macchina non è di questo tempo fascista. Aggiunga che l'uomo non è una macchina adibita ad un'altra macchina." Firmato, Benito Mussolini.

Il testo di questo telegramma, datato 16 luglio 1937 ed indirizzato al Prefetto di Torino, è tratto dagli archivi di Duilio Susmel ed è stato pubblicato il 30 gennaio 2002 dal quotidiano Libero.

Senza entrare nel merito di dolorose vicende politiche dal tragico epilogo e comunque legate ad un periodo storico nel quale il Paese era "ufficialmente" governato da una dittatura, rileggendo queste righe, viene naturale l'accostamento con le vicende dei giorni nostri che più o meno si possono riassumere o mglio, ce le riassumono, così:
un'impresa privata che vuole investire diverse centinaia di milioni di euro per spostare la produzione della nuova Panda dalla Polonia allo stabilimento di Pomigliano D'Arco, è ostacolata nel suo caritatevole intento da un gruppo di irriducibili operai che non vogliono saperne di perdere parte dei propri privilegi attirando forti critiche e duri attacchi trasversalmente dalla maggioranza e da buona parte dell'opposizione, dai media, dalle principali organizzazioni sindacali, dalla Confindustria oltre che naturalmente dalla stessa FIAT.
In effetti, come giustificare la riluttanza di questi operai a cui tra l'altro, non si toccano nè lo yacht battente bandiera panamense nè il conto alle Bermuda? Non ce l'hanno? Cazzi loro, evidentemente non hanno ancora capito che, di che mondo e mondo, da Lampedusa ad Aosta, il vero, unico inno nazionale è "Simmo 'e Napule paisà". Poi parliamoci chiaro, l'operaio che fa casino, che sciopera e manifesta, dà fastidio e provoca disagi, l'operaio che crepa invece fa audience, offre visibilità ad alte cariche e bassi portaborse, a maggioranza, opposizione, sindacati e a non pochi paraculo.


Per ora però, preferisco mettere da parte questi scriteriati che, a fronte di un evento prospettato più unico che raro e cioè, che un'impresa investa soldi propri, stanno ancora a tergiversare invece di offrire prontamente mogli, figlie e visto che l'omofobia sembra essere il male primo che attanaglia il Paese (al pari del "traffico" per Palermo di "Benignana memoria"), anche nerboruti giovanotti.

Certo, se si dovessero paragonare le parole del Duce dittatore (e le maniere da dittatura sono ben esplicate dal manifesto/monito dell'epoca) alle posizioni assunte da laici democratici convertiti all'adorazione dell'agnello d'oro del denaro e del potere, sapientemente rivestito di mercato e liberismo, un pò d'ironia ci scapperebbe; l'importante è però, che siano loro a non provare il minimo imbarazzo.



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martedì 8 giugno 2010

PENSIONE:PER MOLTI MA NON PER TUTTI

Oggi il "buongiorno" ce lo da La Repubblica informandoci che l'età per poter andare in pensione verrà alzata nel corso degli anni fino ad arrivare a regime, a 69 anni e 4 mesi per la pensione di vecchiaia e 66 anni e 4 mesi per la pensione di anzianità che saranno sempre più rare visto che entrare nel "mercato del lavoro" è sempre più difficile mentre uscirne è facilissimo, senza contare tutte quelle porcherie, pardon, forme contrattuali che portano ad avere contributi a "singhiozzo".
Ciò che è veramente importante è non perdere l'ottimismo e continuare a lavorare e versare (donare?) contributi che ci faranno godere, per chi ci campa, di "ricche" pensioni. Una domanda però sorge spontanea: e se invece di aspettare i 70 anni, si cominciasse da subito a chiedere l'elemosina?

Il lato positivo, come ci ricorda "
La Repubblica", c'è: la riforma "forse sarà apprezzata in Europa e dai mercati"; peccato che il concetto di Europa sia poco chiaro; a chi ci rivolge? al popolo Europeo o alla BCE (Banca Centrale Europea) e alle varie lobby che ruotano attorno e dentro al Parlamento Europeo?
Anche sui "mercati non sono in pochi ad avere le idee un pò confuse, anche Eddie Murphy in "Una poltrona per due", inizialmente non aveva idea di come funzionassero i mercati ma, alla fine del film dimostrò di aver capito il meccanismo assistendo alla rovina dei fratelli finanzieri Duke che attraverso sbagliate "vendite allo scoperto" (cioè senza avere effetivamente il possesso dei titoli azionari) di "futures" (titoli azionari che in realtà sono "scommesse") finiscono in malora e, peccato per loro, non c'è nessuno Stato che li aiuta coi soldi (veri) dei contribuenti; un film davvero interessante anche se, non ho ben chiaro perchè il titolo originale "Trading places" che potremmo tradurre come "luoghi di negoziazione" sia potuto diventare "Una poltrona per due"; certo, con la traduzione letterale borsa e finanza non ci fanno una bella figura.


Non dobbiamo però peccare di egoismo; chi sa con quanto dolore i parlamentari italiani sanciranno l'ennesimo obolo per i cittadini italiani; fortunatamente per loro, non dovranno aspettare i 70 anni per aver diritto ad una piccola, sudata, pensioncina.



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sabato 5 giugno 2010

UOMINI IN PENSIONE PRIMA: IL TIMORE DI GIULIANO CAZZOLA






Con la "storiella" della sentenza della Corte di Giustizia Europea che "condanna" l'Italia all'innalzamento dell'anzianità per il pensionamento delle donne, buona parte dell'informazione italiana fa l'ennesima figuraccia; sembra quasi di essere davanti ad un "sistema dei giornalisti", proprio come lo definì l'ex Capo Dipartimento Aviazione Civile Bruno Salvi in merito alla "triplicazione" dei costi in Alitalia (1); le dichiarazioni di Salvi fanno avere l'impressione che in Italia, ad un futuro di bocche chiuse per la "legge bavaglio", si contrapponga un passato ed un presente di bocche chiuse perchè "piene".

L'Italia in realtà viene quindi "condannata" alla pari anzianità per il pensionamento dei dipendenti pubblici uomini e donne e ciò è ben chiaro all'ex Ministro del Lavoro e delle Politiche Sociali Giuliano Cazzola che su QN - Quotidiano Nazionale del 4 giugno 2010 ammette il "rischio" che i dipendenti pubblici maschi possano "avvalersi dei requisiti vigenti per le loro colleghe nella fase transitoria" definendo tale possibilità "un bel guaio per i conti pubblici".

"Un bel guaio" perchè lo Stato dovrebbe da un lato pagare le pensioni agli uomini che vanno in pensione alla stessa età delle donne (quindi a 60 anni) e gli stipendi ai lavoratori che dovrebbe assumere per sostituire i nuovi pensionati il chè, fermo restando che in determinati casi, con taluni dipendenti pubblici bisognerebbe usare la "frusta", è da capire fino a che punto sia un male poichè nuove assunzioni in enti ed aziende pubbliche contribuirebbero a far crescere il numero degli occupati ed i consumi con benefici limitati per l'economia nazionale a causa dell'emmorragia di aziende che delocalizzano (anche grazie ad aiuti pubblici) in paesi che presentano pressione fiscale e costi in generale e del lavoro in particolare, nettamente inferiori a quelli italiani ma aassolutamente in linea con il locale costo della vita.

Le aziende delocalizzano e le casse pubbliche da un lato perdono miliardi di entrate fiscali e dall'altro sborsano fior di miliardi in ammortizzatori sociali.
La delocalizzazione non è che una delle "cause", assieme a corruzione e "malafinanza", di quella che genericamente viene chiamata "crisi", una "causa" contro la quale i rimedi "attivi" latitano ementre prosperano quelli "passivi" ma i rimedi passivi come le pensioni a 65, a 70 o anche a 75 anni (per chi ci campa) sono semplicemente un palliativo, buono a prender tempo, a far fare ancora la bella vita ad una sempre più ristretta cerchia di "eletti" ed a impoverire ulteriormente, anche come qualità della vità, buona parte della popolazione, compromettendo sempre più quel "rapporto diretto, e anche statisticamente significativo, fra reddito pro capite e livello dei diritti e della libertà politica(2)” che è alla base della Democrazia.


Note:
(1) Alitalia, biglietti e "sistemi". http://www.youtube.com/watch?v=uhZM-oQDQmU
(2) "La Democrazia ed il mercato"- Jean-Paul Fitoussi

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giovedì 3 giugno 2010

Unione Europea: uomini italiani in pensione prima?



Ultimatum dell'Unione Europea: gli uomini italiani devono andare in pensione a 60 anni.



Leggendo ciò, chiunque abbia dato un'occhiata alle prime pagine dei principali quotidiani nazionali, sarà verosimilmente rimasto abbastanza perplesso. Cosa riportavano le prime pagine di oggi?



Corriere della Sera: Ultimatum Ue "Donne al lavoro fino a 65 anni"



La Repubblica: La Ue: subito le donne in pensione a 65 anni



La Stampa: L'Ue all'Italia: donne al lavoro fino a 65 anni



Il Giornale: La Ue: alzare l'età. Pensione a 65 anni. Per le donne sarà un affare.



Il Sole 24 Ore: In pensione più tardi le statali - La commissaria Reding impne il ritiro a 65 entro il 2012



Libero: Su pressione dell'Europa. Donne in pensione all'età degli uomini. C'è l'intesa PdL - PD.



Nessun riferimento alla vicenda sulla prima pagina de L'Unità.




La pensione per gli uomini a 60 anni però, oltre a sembrare uno scherzo rappresenta anche un'altra chiave di lettura della sentenza del 13 novembre 2008 (sentenza originale ed allegati) della IVa sezione della Corte di Giustizia Europea da cui scaturisce tutta la vicenda; la Corte di Giustizia Europea ha infatti statuito che"Mantenendo in vigore una normativa in forza della quale i dipendenti pubblici hanno diritto a percepire la pensione di vecchiaia a età diverse a seconda che siano uomini o donne, la Repubblica italiana è venuta meno agli obblighi di cui all’art. 141 CE" e cioè, come ci spiega il Dipartimento delle Politiche Comunitarie della Presidenza del Consiglio dei Ministri, del "Trattato che istituisce la Comunità europea".


Se andiamo a vedere il Trattato di Amsterdam (che a sua volta "modifica il Trattato sull'Unione Europea" ed "i trattati che istituiscono le Comunità Europee") all'articolo 141 non troviamo mica che le donne italiane devono andare in pensione a 65 anni; l'articolo in questione dovrebbe tutelare da discriminazioni e quindi, dove sta scritto che i "discriminati" non siano gli uomini? Dove sta scritto che abbassando l'età di pensionamento degli uomini, l'Italia non assolva a quanto previsto dall'articolo 141 del trattato di Amsterdam e quindi, da qaunto sentenziato dalla Corte di Giustizia Europea?

Quanto riportato dai media corrisponde alla verità oppure, è una mezza verità oltre che naturalmente, una mezza, importante, omissione?

Quì naturalmente, si contesta la "forma" poichè la "sostanza" e cioè la "fattibilità" di un abbassamento dell'età pensionabile degli uomini è attualmente abbastanza improbabile (sull'impossibilità, qualche riserva potrei averla) a causa delle possibilità economiche del Paese ed è sulle possibilità economiche del Paese e sulle cause di tali condizioni che bisognerebbe riflettere seriamente ed agire.


Comunque sia, sarebbe il caso di ricordare che attualmente l'Italia ha "appena" 121 procedure d'infrazione aperte dall'Unione Europea.



Articolo 141 del Trattato di Amsterdam

1. Ciascuno Stato membro assicura l'applicazione del principio della parità di retribuzione tra lavoratori di sesso maschile e quelli di sesso femminile per uno stesso lavoro o per un lavoro di pari valore.
2. Per retribuzione si intende, a norma del presente articolo, il salario o trattamento normale di base o minimo e tutti gli altri vantaggi pagati direttamente o indirettamente, in contanti o in natura, dal datore di lavoro al lavoratore in ragione dell'impiego di quest'ultimo.
La parità di retribuzione, senza discriminazione fondata sul sesso, implica:
a) che la retribuzione corrisposta per uno stesso lavoro pagato a cottimo sia fissata in base a una stessa unità di misura,
b) che la retribuzione corrisposta per un lavoro pagato a tempo sia uguale per uno stesso posto di lavoro.
3. Il Consiglio, deliberando secondo la procedura di cui all'articolo 251 e previa consultazione del Comitato economico e sociale, adotta misure che assicurino l'applicazione del principio delle pari opportunità e della parità di trattamento tra uomini e donne in materia di occupazione e impiego, ivi compreso il principio della parità delle retribuzioni per uno stesso lavoro o per un lavoro di pari valore.
4. Allo scopo di assicurare l'effettiva e completa parità tra uomini e donne nella vita lavorativa, il principio della parità di trattamento non osta a che uno Stato membro mantenga o adotti misure che prevedano vantaggi specifici diretti a facilitare l'esercizio di un'attività professionale da parte del sesso sottorappresentato ovvero a evitare o compensare svantaggi nelle carriere professionali."


martedì 1 giugno 2010

LIBERTA’: TRA LAVORO ED IMPRESA

"Arbeit macht frei"
"Il lavoro rende liberi"
(messaggio di benvenuto posto all'ingresso di numerosi campi di concentramento nazisti)
Partendo dalla scontata premessa che la funzione della Costituzione non è quella di privilegiare una determinata categoria di cittadini ma di salvaguardare la democrazia e quindi l’intero sistema Paese, voglio dedicare qualche minuto alla “libertà d’impresa”.

L’articolo 36 che tutela (o meglio dovrebbe) la dignità dei lavoratori fa parte della stessa Costituzione che all’articolo 41 sancisce che “l'iniziativa economica privata è libera”; lo stesso articolo recita anche che “ non può svolgersi in contrasto con l'utilità sociale o in modo da recare danno alla sicurezza, alla libertà, alla dignità umana” e demanda alla legge per la determinazione de “i programmi e i controlli opportuni perché l'attività economica pubblica e privata possa essere indirizzata e coordinata a fini sociali.”

La Costituzione quindi non fa altro che ribadire il giusto concetto di libertà, cioè, liberi di fare tutto ciò che non nuoce agli altri e quindi libertà di fare impresa rispettando la dignità dei lavoratori il che comporta adeguati salari oltre che orari, periodi di riposi, tutela della salute, etc.; l’articolo 41 quindi rafforza quanto già espresso nell’articolo 36.

Naturalmente per poter offrire ciò ai lavoratori, l’impresa deve avere un adeguato utile ma ciò non è possibile per tutte le attività imprenditoriali o magari è possibile solo in alcuni periodi; pensiamo ad esempio ai servizi pubblici come la scuola, la sanità, i trasporti pubblici, la giustizia, la difesa e la sicurezza, etc. o a settori di nicchia come l’industria aerospaziale, della difesa e che comunque abbiano una forte incidenza di “ricerca e sviluppo” (R & D – Research and Development) che poi fa da traino ad una buona parte dell’industria nazionale; questi sono i casi in cui l'attività economica pubblica e privata può essere indirizzata e coordinata a fini sociali che sia ben chiaro, non vuol assolutamente dire “privatizzare gli utili e socializzare le perdite” come oramai si ripete continuamente da “devastante prassi consolidata” nel nostro Paese, vedi il caso delle “privatizzazioni a debito” o le varie rottamazioni che favoriscono più chi importa dall’estero che non le industrie nazionali che producono sul territorio nazionale, fanno lavorare connazionali e pagano le tasse in Italia oltre che naturalmente, le aziende che operano nel settore creditizio perché, difficilmente chi ad esempio ha approfittato delle varie rottamazioni del settore automobilistico, non si è avvalso di prestiti e finanziamenti vari.

A proposito delle privatizzazioni, considerando l’esperienza italiana in tal senso, c’è da chiedersi se per il sistema paese sia ad esempio meglio un’azienda di un dato settore che fattura 5 miliardi di euro ma che abbia utili irrilevanti o magari uguali a zero o ridimensionare la stessa azienda portandola a discreti utili (mettiamo 10 milioni) ma a fronte di un fatturato di 500 milioni impiegando meno dipendenti, erogando servizi ad una cerchia più ristretta di utenti (cittadini), etc. Al di là dei risparmi che si possono attuare optando per l’acquisto di tute da lavoro tunisine, scarpe antinfortunistica marocchine, caschi e giacche nord coreane, auto di servizio rumene (che comunque preferisco rispetto alle “italiane” costruite all’estero), etc. etc. e da vantaggi fiscali ottenibili grazie alla costituzione di società nei paradisi fiscali (alla faccia di chi le tasse le paga in Italia, compresi tutti i lavoratori dipendenti), la sensazione è che in certi casi, gli utili siano più dovuti a pesanti tagli ai salari accompagnati da un’esasperata flessibilità che portano si ad un aumento della produttività ma anche all’umiliazione dell’articolo 36.

Per contro, è anche vero che molte aziende sottoposte a regime di libera concorrenza, se applicassero contratti di lavoro ai sensi dell’articolo 36, avrebbero il destino segnato essendo impossibile reggere la concorrenza delle aziende straniere che pagano alla manodopera stipendi da 100 - 200 euro, coi quali in Cina o in Vietnam si vive dignitosamente, ci mancherebbe, ma in Italia…."

Guai" a parlare di “dazi” e/o di “protezionismo” considerati dagli ambienti liberisti politicamente trasversali un pericolo, dazi però, che persino Cina e Vietnam applicano su determinati prodotti importati spingendo e/o ulteriormente incentivando così diverse aziende a insediare stabilimenti produttivi in loco; parlare di dazi in Italia, per taluni liberisti che poggiano le loro onorevoli chiappe al "sicuro", è un sacrilegio e poco importa, se molti di loro, non sono stati “scelti” dagli italiani ma, “votati” grazie ad una legge elettorale che non consentendo ai cittadini di “scegliere” i propri rappresentanti, indebolisce la stessa democrazia oltre a rappresentare un paradosso per il “libero mercato della rappresentanza e quindi della gestione del potere”; deve far riflettere che negli ultimi 15-20 anni, a fronte di un’economia sempre più liberista, ci si è ritrovati con un sistema politico bipolare (basato tra l’altro quasi essenzialmente sulla figura dei due rispettivi leader) che esclude una serie di formazioni politiche minori e “disgusta” milioni di elettori che scoraggiati, rinunziano al loro diritto di farsi rappresentare.

Ciò che è accaduto più platealmente per i partiti, si è verificato coi sindacati che paradossalmente, pur dovendo rappresentare i lavoratori, vengono riconosciuti non tanto in base alla rappresentatività ma in base alla sottoscrizione di contratti di lavoro stilati dalle aziende; chi li sottoscrive può rappresentare i lavoratori, chi non li sottoscrive non può; appare evidente che tale criterio sarebbe stato giusto nel caso in cui si fosse parlato di “portavoce” aziendali ma non di rappresentanti dei lavoratori; ancor più grave è che anche grazie a contratti sottoscritti da talune blasonate organizzazioni sindacali, c’è un proliferare di retribuzioni mensili da 700, 600, 500 euro e anche meno e ciò pare evidente, in violazione dell’articolo 36 e si badi bene, parliamo di “retribuzioni”, non di“sussidi” come quelli che abbiamo già visto essere bocciati dalla Corte Costituzionale Tedesca; le maggiori organizzazioni sindacali italiane però, non parlano di incostituzionalità delle retribuzioni mentre il Ministro Tremonti si affrettò a definire “incostituzionale” il tetto agli stipendi dei manager.

Si è avuto quindi un sovvertimento tra le priorità politiche e quelle economiche e, per politica non s’intende certa fanghiglia di inquisiti, pregiudicati, “pianisti”, consumatori (se non dipendenti) di droghe (cocaina compresa) di dubbia provenienza e di servizi di “escort” altrimenti dette zoccole) etc. che appestano il Paese e rappresentano la vera anti politica.

Qualcosa evidentemente non torna, anche perché non ricordo di liberisti che si stracciavano le vesti quando la UE infliggeva pesanti multe agli allevatori italiani che superavano le “quote latte” che per l’appunto, sono un “limite” alla produzione di latte e che conseguentemente portano ad un aumento dell’import dall’estero; è chiaramente un’interferenza da parte del legislatore che condiziona il mercato (nel senso dell’offerta di latte) con ciò che ne consegue: mancato abbassamento del costo del latte oppure innalzamento, mancata crescita occupazionale o tagli nel settore in Italia, aumento degli utili per le aziende importatrici, perdite per le aziende produttrici italiane, etc.

Nella nostra mente non può farsi largo un dubbio: stiamo assistendo al primato delle leggi del liberismo o alle leggi dei più forti o peggio, alle leggi di chi ha meno scrupoli? E se prevalesse la legge di chi ha meno scrupoli, quali effetti ne avrebbero i cittadini e l’intero Paese e soprattutto, potremmo permetterci di restare indifferenti a ciò? Magari suonerà provocatorio ma forse, una risposta potrebbe darcela la stessa Costituzione, con l’articolo 52.


Emanuele Mazzaglia

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