martedì 1 giugno 2010

LIBERTA’: TRA LAVORO ED IMPRESA

"Arbeit macht frei"
"Il lavoro rende liberi"
(messaggio di benvenuto posto all'ingresso di numerosi campi di concentramento nazisti)
Partendo dalla scontata premessa che la funzione della Costituzione non è quella di privilegiare una determinata categoria di cittadini ma di salvaguardare la democrazia e quindi l’intero sistema Paese, voglio dedicare qualche minuto alla “libertà d’impresa”.

L’articolo 36 che tutela (o meglio dovrebbe) la dignità dei lavoratori fa parte della stessa Costituzione che all’articolo 41 sancisce che “l'iniziativa economica privata è libera”; lo stesso articolo recita anche che “ non può svolgersi in contrasto con l'utilità sociale o in modo da recare danno alla sicurezza, alla libertà, alla dignità umana” e demanda alla legge per la determinazione de “i programmi e i controlli opportuni perché l'attività economica pubblica e privata possa essere indirizzata e coordinata a fini sociali.”

La Costituzione quindi non fa altro che ribadire il giusto concetto di libertà, cioè, liberi di fare tutto ciò che non nuoce agli altri e quindi libertà di fare impresa rispettando la dignità dei lavoratori il che comporta adeguati salari oltre che orari, periodi di riposi, tutela della salute, etc.; l’articolo 41 quindi rafforza quanto già espresso nell’articolo 36.

Naturalmente per poter offrire ciò ai lavoratori, l’impresa deve avere un adeguato utile ma ciò non è possibile per tutte le attività imprenditoriali o magari è possibile solo in alcuni periodi; pensiamo ad esempio ai servizi pubblici come la scuola, la sanità, i trasporti pubblici, la giustizia, la difesa e la sicurezza, etc. o a settori di nicchia come l’industria aerospaziale, della difesa e che comunque abbiano una forte incidenza di “ricerca e sviluppo” (R & D – Research and Development) che poi fa da traino ad una buona parte dell’industria nazionale; questi sono i casi in cui l'attività economica pubblica e privata può essere indirizzata e coordinata a fini sociali che sia ben chiaro, non vuol assolutamente dire “privatizzare gli utili e socializzare le perdite” come oramai si ripete continuamente da “devastante prassi consolidata” nel nostro Paese, vedi il caso delle “privatizzazioni a debito” o le varie rottamazioni che favoriscono più chi importa dall’estero che non le industrie nazionali che producono sul territorio nazionale, fanno lavorare connazionali e pagano le tasse in Italia oltre che naturalmente, le aziende che operano nel settore creditizio perché, difficilmente chi ad esempio ha approfittato delle varie rottamazioni del settore automobilistico, non si è avvalso di prestiti e finanziamenti vari.

A proposito delle privatizzazioni, considerando l’esperienza italiana in tal senso, c’è da chiedersi se per il sistema paese sia ad esempio meglio un’azienda di un dato settore che fattura 5 miliardi di euro ma che abbia utili irrilevanti o magari uguali a zero o ridimensionare la stessa azienda portandola a discreti utili (mettiamo 10 milioni) ma a fronte di un fatturato di 500 milioni impiegando meno dipendenti, erogando servizi ad una cerchia più ristretta di utenti (cittadini), etc. Al di là dei risparmi che si possono attuare optando per l’acquisto di tute da lavoro tunisine, scarpe antinfortunistica marocchine, caschi e giacche nord coreane, auto di servizio rumene (che comunque preferisco rispetto alle “italiane” costruite all’estero), etc. etc. e da vantaggi fiscali ottenibili grazie alla costituzione di società nei paradisi fiscali (alla faccia di chi le tasse le paga in Italia, compresi tutti i lavoratori dipendenti), la sensazione è che in certi casi, gli utili siano più dovuti a pesanti tagli ai salari accompagnati da un’esasperata flessibilità che portano si ad un aumento della produttività ma anche all’umiliazione dell’articolo 36.

Per contro, è anche vero che molte aziende sottoposte a regime di libera concorrenza, se applicassero contratti di lavoro ai sensi dell’articolo 36, avrebbero il destino segnato essendo impossibile reggere la concorrenza delle aziende straniere che pagano alla manodopera stipendi da 100 - 200 euro, coi quali in Cina o in Vietnam si vive dignitosamente, ci mancherebbe, ma in Italia…."

Guai" a parlare di “dazi” e/o di “protezionismo” considerati dagli ambienti liberisti politicamente trasversali un pericolo, dazi però, che persino Cina e Vietnam applicano su determinati prodotti importati spingendo e/o ulteriormente incentivando così diverse aziende a insediare stabilimenti produttivi in loco; parlare di dazi in Italia, per taluni liberisti che poggiano le loro onorevoli chiappe al "sicuro", è un sacrilegio e poco importa, se molti di loro, non sono stati “scelti” dagli italiani ma, “votati” grazie ad una legge elettorale che non consentendo ai cittadini di “scegliere” i propri rappresentanti, indebolisce la stessa democrazia oltre a rappresentare un paradosso per il “libero mercato della rappresentanza e quindi della gestione del potere”; deve far riflettere che negli ultimi 15-20 anni, a fronte di un’economia sempre più liberista, ci si è ritrovati con un sistema politico bipolare (basato tra l’altro quasi essenzialmente sulla figura dei due rispettivi leader) che esclude una serie di formazioni politiche minori e “disgusta” milioni di elettori che scoraggiati, rinunziano al loro diritto di farsi rappresentare.

Ciò che è accaduto più platealmente per i partiti, si è verificato coi sindacati che paradossalmente, pur dovendo rappresentare i lavoratori, vengono riconosciuti non tanto in base alla rappresentatività ma in base alla sottoscrizione di contratti di lavoro stilati dalle aziende; chi li sottoscrive può rappresentare i lavoratori, chi non li sottoscrive non può; appare evidente che tale criterio sarebbe stato giusto nel caso in cui si fosse parlato di “portavoce” aziendali ma non di rappresentanti dei lavoratori; ancor più grave è che anche grazie a contratti sottoscritti da talune blasonate organizzazioni sindacali, c’è un proliferare di retribuzioni mensili da 700, 600, 500 euro e anche meno e ciò pare evidente, in violazione dell’articolo 36 e si badi bene, parliamo di “retribuzioni”, non di“sussidi” come quelli che abbiamo già visto essere bocciati dalla Corte Costituzionale Tedesca; le maggiori organizzazioni sindacali italiane però, non parlano di incostituzionalità delle retribuzioni mentre il Ministro Tremonti si affrettò a definire “incostituzionale” il tetto agli stipendi dei manager.

Si è avuto quindi un sovvertimento tra le priorità politiche e quelle economiche e, per politica non s’intende certa fanghiglia di inquisiti, pregiudicati, “pianisti”, consumatori (se non dipendenti) di droghe (cocaina compresa) di dubbia provenienza e di servizi di “escort” altrimenti dette zoccole) etc. che appestano il Paese e rappresentano la vera anti politica.

Qualcosa evidentemente non torna, anche perché non ricordo di liberisti che si stracciavano le vesti quando la UE infliggeva pesanti multe agli allevatori italiani che superavano le “quote latte” che per l’appunto, sono un “limite” alla produzione di latte e che conseguentemente portano ad un aumento dell’import dall’estero; è chiaramente un’interferenza da parte del legislatore che condiziona il mercato (nel senso dell’offerta di latte) con ciò che ne consegue: mancato abbassamento del costo del latte oppure innalzamento, mancata crescita occupazionale o tagli nel settore in Italia, aumento degli utili per le aziende importatrici, perdite per le aziende produttrici italiane, etc.

Nella nostra mente non può farsi largo un dubbio: stiamo assistendo al primato delle leggi del liberismo o alle leggi dei più forti o peggio, alle leggi di chi ha meno scrupoli? E se prevalesse la legge di chi ha meno scrupoli, quali effetti ne avrebbero i cittadini e l’intero Paese e soprattutto, potremmo permetterci di restare indifferenti a ciò? Magari suonerà provocatorio ma forse, una risposta potrebbe darcela la stessa Costituzione, con l’articolo 52.


Emanuele Mazzaglia

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